Racconti

Solo per me

Premiato al Concorso Feltrinelli “Esploratori del Gusto” 2013

Il ristorante più esclusivo del mondo ha un solo coperto. Ho prenotato sei mesi fa, compilando un lungo formulario e una dettagliata lettera di motivazioni. Il menù è strettamente personalizzato, così come l’entità del conto. Il cliente stesso decide quanto pagare la sua cena. C’è chi ha lasciato pochi spiccioli e chi una vera fortuna.

Entro in questa piccola stanza dalle pareti color caffè, morbidamente illuminata da una grande lampada a stelo, piegata sopra un tavolino quadrato con una sola sedia. Una tenda rossa chiude la parete opposta all’ingresso. Un sottofondo musicale jazz avvolge l’ambiente.

Sulla semplice tovaglia di immacolato cotone di Fiandra, un solo coperto apparecchiato con piatti e posate di pregio, oltre a una serie di bicchieri di cristallo, perfettamente disposti. Mi accomodo sulla sedia di pesante legno massiccio.

In quel preciso istante, la tenda sul fondo viene scostata con un gesto secco e un cameriere alto e asciutto, vestito completamente di nero, a parte i guanti bianchissimi, raggiunge il tavolo con movimenti esatti. Poi resta immobile, guardando il vuoto davanti a sé.

“Benvenuto al Petit Restaurant, signore,” dice il cameriere, con voce profonda.

Poi scompare dietro la tenda. Riappare poco dopo con una caraffa di cristallo e mi versa un bicchiere di acqua fresca e leggera. Altro viaggio nel retro e arriva un grosso calice di bianco fermo e fruttato, perfetto per l’antipasto. Il cameriere si muove rapido ed efficiente, ma senza una parola. Ecco arrivare un ricco piatto di antipasti assortiti. Lo guardo ammirato e stupefatto.

Ci sono piccoli sogni e grandi aspirazioni. Riconosco il miraggio infantile di fare l’astronauta, le confuse ambizioni successive di campare di letteratura, perfino la voglia di trasferirmi a Parigi. Poi altri pensieri antichi e recenti, rimescolati e serviti con eleganza. Mi gusto il tutto lentamente, sorseggiando il bianco profumato.

Ho appena finito di masticare la croccante voglia di rivedere Barcellona, quando riappare il cameriere. Questa volta mi versa un generoso calice di rosso ben strutturato, con retrogusto di nocciola. Poi lo vedo sparire dietro la tenda, già pregustando il primo piatto, che infatti non delude le mie attese. Un’abbondante porzione di errori passati, vicini e lontani. Li vedo lì tutti aggrovigliati come fossero pasta lunga cotta a puntino, insaporiti dalla giusta dose di rabbia e rassegnazione.

Li muovo un po’ con la forchetta ed ecco emergere l’università iniziata e mollata senza passione, quella ragazza che forse meritava di più, quell’arido lavoro portato avanti troppo a lungo. Divoro tutto a grosse forchettate, annegando qualche sapore dissonante nel deciso aroma del vino.

Quando lo finisco, torna il cameriere con un bicchiere pulito e mi versa di nuovo del rosso, ma ancora più corposo. Ecco arrivare il secondo, che anche questa volta mi sorprende. Si tratta dei desideri più accesi e riposti, quelli che credevo di conoscere solo io.

Eccomi dunque mordere il desiderio di una insaziabile ragazza esotica, addentare il sogno di diventare un’eminenza grigia della cultura mondiale, spolpare la voglia di una vita libera e cosmopolita. Mi godo ogni boccone, innaffiato da questo rosso acceso. Alla fine sono completamente sazio ed appagato.

Il cameriere si fa attendere un po’ di più. Ma poi eccolo arrivare con un bicchierino di celestiale bianco liquoroso da dessert, in vista dell’ultimo piatto. Si tratta di una morbidissima crema di fresche speranze, appena scottata da una fiammata di pericolo che la rende davvero irresistibile.

Chiudo gli occhi e gusto tutta la squisita dolcezza del mio futuro.

* * * * *


Pensieri di una caffettiera

Pubblicato nell’antologia Papergang, Under 25 III, curata da Pier Vittorio Tondelli, Oscar Mondadori, 1990 (ristampa Costa & Nolan, 2007)

      Io sono una caffettiera, e me ne vanto. La mia solida corazza di duralluminio non sarà elegante, ma di certo ispira simpatia e familiarità oltre, s’intende, a garantirmi una lunga e tranquilla esistenza. Sono in questa casa da ben quattromiladuecentosettantaquattro ebollizioni, e spero di rimanerci ancora per molti altri caffè. So bene che finirò dimenticata in fondo a qualche armadio in una catasta di ciarpame metallico, prima di passare a nuova vita con una fusione. Ma nell’attesa, mi gusto ogni attimo delle mie brevi, intense giornate, e non ci sto tanto a pensar su.

       La gente ama il profumo del caffè. Si sente subito meglio dopo averne bevuto una tazzina fumante: il cuore si risveglia, il cervello si scrolla di dosso il torpore del mattino o del dopo pranzo, il pensiero sembra  fluire rapido. Ma se solo poteste immaginare la sublime delizia, lo squisito piacere che accompagnano, per una caffettiera, ogni ebollizione… Forse mi invidiereste.

       Ogni mattina non vedo l’ora che il più lesto ad alzarsi mi metta sul fuoco. Poi tutto avviene così rapidamente che mi riesce difficile, a fornello spento, prenderne completa coscienza. L’acqua caldissima comincia presto a solleticarmi la caldaia: prima dolcemente, poi via via sempre più rapida, infine quasi furiosa. Allora, chiusa da ogni lato, spicca il volo verso l’alto, attraversa l’imbuto e si unisce alla polvere di caffè, perdendo la sua limpidezza ma acquistando un nuovo, torbido e gorgogliante impeto che la proietta, attraverso il filtro, nel cono eiettore, fino a colare, esausta e profumata, nell’ampio e sicuro vano del raccoglitore.

       Peccato davvero non possiate conoscere quella deliziosa, dolcissima ma impetuosa sensazione che, in quei tre minuti, mi scuote dal fondo della caldaia fin quasi al beccuccio. Pazienza. Comunque non giudicatemi male, non è solo questo che mi rende la vita così bella. Vi ho già detto di quanto a lungo ho servito in questa casa e, vi confesso, ormai mi sento parte della famiglia che mi ospita e mi ha tolta dal limbo della confezione di cartone per darmi alla pienezza di una vita cosciente e attiva.

      Ogni mattina mi sveglio felice di poter contribuire all’armonia di quelle stupende persone artefici del mio quotidiano piacere. Loro sono quattro, una tipica famiglia italiana ben assortita. Capirete che i rapporti più diretti e frequenti li ho con la padrona di casa, la signora Valeria. È quasi sempre lei che, di prima mattina, mi toglie dall’armadietto, mi svita, mi riempie d’acqua facendo bene attenzione che il livello non superi la valvolina di sicurezza; mi carica di caffè e mi mette sul fornello a fuoco lento.

      È sempre lei che, con tocco da fata, mi libera dai fondi di caffè e mi sciacqua con vigoroso amore oppure mi ripone smembrata in quell’infernale, calda tempesta artificiale. È una donna attiva e instancabile: la vedo correre qua e là per tutta la mattinata, mentre accanto a me quegli smorti e inutili faccioni di porcellana non fanno altro che vantarsi del loro splendore. Quando poi si avvicina l’ora di pranzo salgono fin quassù certi profumini… da sollevarsi il coperchio. È proprio allora che ricompaiono puntualmente il signor Aldo e la figlia Francesca.

      Il padrone di casa è un avvocato, un uomo onesto e gentile, un padre molto comprensivo. Peccato sia sempre così occupato: pranza rapidamente ma non rinuncia mai a una buona tazza di caffè nero, prima di alzarsi da tavola. Francesca è una ragazzina e, come tutte le ragazzine, ha un carattere solubile: si dice così, no? Spesso parla a ruota libera delle sue mattinate scolastiche, scoppiando continuamente a ridere. Ma a volte basta un piccolo rimprovero per farla piangere, e allora si chiude in se stessa come una scatola di tonno al naturale. Non parliamo poi di quando è costretta a svolgere qualche faccenda di casa. Una volta mi ha riempita di caffè fino all’orlo del serbatoio, pigiando ben bene con un cucchiaio: stavo per soffocare, e il caffè è uscito una schifezza!

       Andrea no, lui non l’avrebbe mai fatto. Chissà perché ho un affetto particolare per quel ragazzo così pallidino e taciturno, sempre intento a rimuginare chissà cosa. A dire il vero da parte sua non c’è mai stata molta attenzione nei miei riguardi: ogni tanto correva a spegnere il fornello se venivo lasciata incustodita, ma il caffè proprio non lo interessava. Solo ultimamente ha preso a concedersi una tazzina dopo pranzo, quasi tutti i giorni, ma sempre a dosi molto modeste: secondo me si lascia troppo influenzare da tutti quei libri che legge. In compenso ha preso gusto alla mia preparazione, e vi si dedica con una cura quasi certosina.

       Mi riempie d’acqua proprio a filo della valvolina, stando bene attento a non raggiungere il foro; se lo supera mi inclina leggermente sul lavandino e controlla la correzione, magari mi alleggerisce ancora un po’, per poi accorgersi di aver esagerato e dover rabboccare. Poi agita delicatamente il cucchiaio con la polvere di caffè sopra il serbatoio, distribuendone il contenuto con uniformità. Pulisce con cura il bordo per garantirmi un corretto avvitamento, toglie un pizzico di polvere con la punta del cucchiaino e livella di nuovo il contenuto. Io me ne sto buona buona e lo lascio fare, finché non mi avvita stringendomi con forza e ponendomi sul fornello. Da quel momento entro in campo io e, come in famiglia ben sanno, modestamente ci so fare.

       Sapeste che pena mi fa quell’aggeggio di latta e fili elettrici che doveva assicurare alla nostra famiglia un caffè espresso «come quello del bar» (cosa avrà poi di speciale?) e che ora giace, completamente dimenticato e arrugginito, in fondo all’armadietto. È un regalo di due Natali fa. Prima un gran armeggiargli attorno, poi un filtro che non andava, una spia luminosa che non s’accendeva, vapore dappertutto, un caffè che sapeva di camomilla… È finita com’è finita. Del resto, cosa c’era da aspettarsi da un marchingegno che, se gli toglievi la spina, aveva la sensibilità di un tritacarne?

      Ecco, se proprio dovessi trovare uno svantaggio nella mia per il resto invidiabile esistenza, sarebbe proprio la mancanza di una stimolante compagnia nel mio armadietto. E pensare che la vita non manca, anzi, tra residenti fissi e ospiti occasionali, ficcati spesso fuori posto dalle mani di quella fanciulla maldestra, qui si sta quasi stretti. Il difficile è avviare una conversazione piacevole. L’ultima volta ho tentato con uno scolapasta, ma l’ho trovato troppo superficiale. E così, per non rischiare di arrugginirmi, mi sforzo di captare le conversazioni della famiglia riunita a tavola.

       Certo, molti particolari mi sfuggono, ma devo dire che ho imparato parecchio della vostra vita di umani. So che se non rigate dritto, se uccidete un vostro simile o non ancorate bene ai balconi i vostri vasi di gerani, vi aspetta un tribunale che troverà per voi il giusto castigo. So anche che da giovani andate tutti a scuola per imparare tante cose udii. Qui vi annoiate molto, ma per fortuna ci sono i ripetenti, gli studenti più simpatici di ogni classe che vengono ogni anno spostati in quella inferiore per rallegrarla ed elevarne così il profitto.

    Della vita casalinga so quasi tutto: il conto del pane, quello del gas e della luce, il supermercato più conveniente, il nuovo detersivo liquido, i tempi di cottura dei surgelati e molte ricette. Solo non mi è chiaro cosa sia il forno a microonde: sospetto si tratti di un forno giapponese con la radio incorporata. Però da qualche tempo c’è qualcosa che mi sfugge e mi preoccupa. Intanto, a tavola, parlano sempre meno, e quando parlano lo fanno malvolentieri, scambiandosi brevi domande senza curiosità e risposte forzate e incomplete. In principio credevo fosse un modo per gustare meglio il sapore dei cibi.

      Mi sbagliavo: mangiano tutti in fretta, nervosi e impazienti d’alzarsi, spesso inghiottono anche delle pastiglie digestive, come se non bastasse un buon caffè! Così i pasti durano sempre meno, e chi vi parla non sa più come vanno le cose in tribunale, che voti prende Francesca e di quanto è aumentato il prezzo dello zucchero. Oggi al massimo guardo le figure sulle scatole di cereali. Se sono fortunata mi ritrovo in una posizione utile per sbirciare il televisore, che ultimamente è acceso anche all’ora di pranzo.

Ma il telegiornale proprio non lo capisco: che diavolo sarà mai una “piattaforma contrattuale”? E i giochi a quiz mi sembrano un po’ cretini: a che servono i gettoni d’oro? a telefonare? Mi diverte la pubblicità, soprattutto quella dei prodotti alimentari. Spesso me li ritrovo poi in cucina e, devo ammetterlo, fa un certo effetto stare in mezzo a tutte quelle star.

      Ma questi sono passatempo. Resta il fatto che le persone che più mi stanno a cuore sono cambiate. Adesso le vedo stanche e annoiate. Spesso si arrabbiano e litigano, sempre per gli stessi motivi. L’unica novità positiva è che Andrea mi sembra più presente: comincia a guardarsi attorno, si lamenta quando qualcosa non gli va, a volta alza anche un po’ la voce: che sia l’effetto del caffè? Ho molta fiducia in lui: forse è rimasto il solo che possa fare qualcosa, prima che sia troppo tardi.

       Io non ho mai letto libri e di quanto succede fuori di questa casa so poco. L’unica cosa che credo di aver imparato è che la sola strada per fare quel che si ama è amare ciò che si fa e si sa fare. Io faccio il caffè e ne sono felice perché so che questo è il mio destino. Spero tanto che anche voi troviate presto il vostro.

* * * * *

Amici per sempre

Primo premio al concorso Una fiaba per Selvino, edizione 2014

C’era una volta un bambino. E quella volta il bambino ero io. Un bambino cocciuto e un po’ spaventato, tale e quale ad oggi. Solo che ero parecchio più piccolo. Bene, dovete sapere che la mia prima gitarella scolastica fu sul monte Purito. Allora tutti noi bambini, come forse anche voi oggi,

lo chiamavamo Prurito e ci divertivamo un mondo a grattarci tutti, quando lo dicevamo. Comunque la nostra prima gita fu proprio lassù. Allora non giravamo ancora con il cartellino al collo per non perderci come si fa oggi, un po’ come le mucche. Poi allora c’era una sola maestra e non è che potesse badare sempre a tutti.

Io, oltre che cocciuto e un po’ spaventato, ero anche molto, molto curioso. Così, quando ho visto qualcosa saltellare e poi scomparire dietro una collinetta, mi sono staccato dal gruppo e sono corso a vedere. Topo? Scoiattolo? Volpe? Robot? Allora li avevo visti solo in fotografia. A parte il robot, che stava solo nei fumetti.

Così, feci il giro della collinetta ma non vidi nulla di particolare, a parte sassi e cespugli. Sentivo le voci dei miei compagni in lontananza, ma ancora nessuno mi chiamava. Non ero un tipo molto popolare, me ne stavo spesso per i fatti miei. Forse nessuno si era accorto della mia assenza.

Stavo quasi per tornare indietro, quando vidi un altro saltello tra due cespugli. Sì, ma cos’era? Mi avvicinai pian piano e all’improvviso non ti salta fuori un… pesciolino? Sì, era proprio un pesciolino arancione, con le grosse pinne posteriori usate come zampette e l’occhietto vispo puntato su di me.

Rimasi a bocca aperta, immobile e muto. Il pesce sembravo io! Passò un minuto così lungo da sembrare un secolo. Poi, dovete credermi, quel pesciolino mi chiese: – Selvino è ancora lontana? Io ci misi quasi un altro minuto a riprendermi dalla sorpresa e risposi:

– No, dietro la collina e poi sempre dritto per il sentiero.

– Grazie, – rispose il pesciolino – non è che sia stanco: ho dormito per quattrocento milioni di anni. Però ho imparato a camminare da poco. Sai com’è.

Io feci sì con la testa, come se fosse normale. Avevo ancora gli occhi più sgranati dei suoi, credo. Poi feci la domanda più stupida del mondo.

– Ma tu sei… un pesce?

– Certo caro. Perché? Non si nota?

– Sì però tu… tu…

– Ti chiedi come mai un pesce parla e cammina?

– Proprio così.

– Devi sapere che io sono un pesce preistorico, cioè molto molto molto vecchio. Non puzzo solo perché sono rimasto congelato per quattrocento milioni di anni nel ghiaccio, sulla vetta qui sopra. Ho imparato a camminare proprio per scendere a valle e capire un po’ come va il mondo di oggi.

– Ma… i pesci non stanno nel mare?

– Vero, ma qui infatti, ai miei tempi, c’era il mare, non lo sapevi? Le montagne sono arrivate dopo. Così molti di noi sono morti. Altri, più fortunati, sono rimasti intrappolati nel ghiaccio e si sono conservati per tutto questo tempo. A proposito, come si mangia in paese? Ho una famina!

– In paese… si mangia bene però…

– Ah, che sciocchino, ancora non ti ho detto come mai so parlare. Be’, devi sapere che, in realtà, tutti i pesci sanno parlare. Solo che, non avendo nulla di particolare da dire, se ne stanno zitti. Tutto qui. Anche voi umani fate lo stesso?

– Non direi proprio, – risposi io, ora più sereno. Cominciava a starmi simpatico, quel pesciolino preistorico.

– Ma tu sei salito quassù tutto solo? – mi domandò.

– Io? No, sono in gita con i miei compagni di classe.

– Davvero? E dove sono finiti?

– Sono là dietro la collina. O almeno, erano là.

– E’ dura imparare a camminare da soli, non è vero? Ne so qualcosa. Però ne vale la pena. Facciamo così. Ci andiamo insieme, dietro la collina. Se ritroviamo i tuoi compagni, proseguiamo con loro. Se no mi accompagni in paese. Ti va?

– Ok anche per me, – risposi.

Così facemmo il giro della collina e mi accorsi che la mia classe era già scesa a valle. Forse mi avevano cercato, magari credevano fossi già sulla via del ritorno. Però adesso avevo un nuovo amico, e non avevo più paura.

Scendemmo insieme fino a Selvino, io e un pesciolino parlante e con le pinne usate come zampe. Una volta arrivati, lui non fece nulla per nascondersi e, dopo un bello spuntino, rispose a tutte le domande della gente stupita che riempì la piazza del paese per vederlo.

Poi il mio amico pesciolino venne ricevuto dal sindaco, fu intervistato dai giornalisti della zona e fece pure qualche lezione nella mia scuola, invitato dalle maestre, per spiegarci la nascita delle nostre montagne. Insomma, divenne presto una piccola celebrità.

Solo che, dopo un po’ di tempo, gli prese una brutta tosse. Se non avete mai sentito tossire un pesce, dovete credermi sulla parola: non è un bello spettacolo. Ci disse che era colpa dell’inquinamento. Gli spiegarono che l’aria di Selvino è molto pulita. Lui rispose che, rispetto al suo ghiacciaio, qualsiasi posto era inquinato.

Ma una sera, chiacchierando solo con me, confessò la verità. L’inquinamento che gli faceva male era quello delle parole. Parole superflue, inutili, false, a volte anche cattive. Soprattutto, troppe. Lui aveva deciso di parlare solo perché aveva delle cose da dirci, ma poi il nostro baccano si era fatto insostenibile per le sue piccole orecchie.

Dunque si sciupava a vista d’occhio, poverino. Qualcuno propose di metterlo in una boccia di acqua pura, per farlo riprendere. In fondo, era sempre un pesce. Lui non disse nulla e li lasciò fare. Ma era così triste vederlo in quel modo, muto e prigioniero di una piccola boccia di vetro!

Una fredda mattina d’inverno, lo guardai e capii subito cosa mi chiedeva di fare. Presi la boccia e salii sul monte Purito, ormai coperto di neve. Salii più in alto possibile, poi lo guardai un’ultima volta e lui mi sorrise, ne sono certo. Scavai un piccolo buco nella neve e ci versai l’acqua della boccia con lui dentro. L’acqua si fece subito ghiaccio e il pesciolino restò subito immobile, congelato. Allora richiusi la buca con la neve gelata e spaccai la boccia di vetro su di un sasso lì vicino.

Se vi capiterà di passare da quelle parti e avrete fortuna, domani o fra quattrocento milioni di anni, potreste anche trovare un nuovo, antichissimo amico.